“Nevertheless there is this thing called architecture”

Grazie al mio amico Antonello, una volta a Dublino ho incontrato Sheila e John. Era l’autunno del 1998. Dal quel momento, con intervalli regolari, abbiamo iniziato a conversare, con un vecchio registratore portatile, lo stesso che avevo usato con Gabetti & Isola, attorno e dentro al loro mestiere di architetti e intellettuali. Nonostante il mio basic English abbiamo conversato della loro esperienza londinese con Jim Stirling, avvenuta negli anni Settanta, nel periodo della “scoperta” Aldo Rossi. Abbiamo conversato del loro interesse per una certa architettura degli anni Cinquanta e soprattutto del mestiere di architetto, di cantieri e parole, di relazioni complesse e spesso invisibili tra i disegni preliminari e costruzione. Un mestiere, quello di O’Donnell + Tuomey, praticato con puntigliosa coscienza storico-critica, senza regole né modelli precostituiti; un mestiere, il loro, praticato con l’intelligenza dell’immaginazione.
Da quel momento cerco di guardare l’architettura italiana da una certa distanza e il mio lavoro si è nutrito di suggestioni inattese. Ho abitato con curiosità molte architetture di Sheila e John. In particolare ho sfiorato decine di volte il muro di mattoni della Scuola a Ranalagh e delle Residenze a Timberyard, ho trascorso molti pomeriggi all’Irish Film Centre a Temple Bar, sono entrato in Vessel a Venezia, la città della fantastica Favola di Hugo Pratt. Lì ho scoperto la loro stra-ordinaria sensibilità e insieme la lucidità di maneggiare e tentare di rispondere ai problemi della città storica, del paesaggio, della natura dei materiali da costruzione.
Il libretto, costruito con amore da Antonello Vagge e da The Gulistan Press, contiene questo e molto altro.

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