Torre-faro. Concorso nazionale di idee

Alcuni architetti “piemontesi” – non solo nel senso che lì hanno lasciato qualche traccia – hanno lavorato nel territorio partendo da piccole cose, da interventi edilizi minuti, in apparenza marginali, ma capaci di migliorare nella sostanza il paesaggio esistente. Questi architetti, che corrono da Bernardo Vittone a Elio Luzi, solo per citarne due, si sono sempre misurati con l’immaginazione, con l’utilità, con il loro presente, guardando con meraviglia al passato, pensando con ingegno all’avvenire. E lo hanno fatto con discrezione, senza velleità teoriche, con la tenacia che contraddistingue gli uomini di questo frammento di Piemonte.

Eppure questo territorio esprime ancora pezzi di natura naturalis, direbbe Gabetti, quali i cocuzzoli con farnie e pini, che si coagulano a pezzi aggiunti dall’uomo nel corso dei secoli, quali castelli e pievi, vigne e canali, pergolati reali e falò raccontati. Sì, perché, per noi, il territorio è anche paesaggio raccontato e rappresentato da scrittori e architetti. Alba, Canelli, Asti, Santo Stefano Belbo, Moasca, ma anche Dogliani e Murazzano, esprimono luoghi certamente reali, ognuno con la loro identità e tradizione da conoscere profondamente, ma anche teatri dove Cesare Pavese ha narrato le sue storie e G.B. Schellino ha costruito le sue “cose architettoniche”, fatte di pietre e mattoni, di richiami all’architettura internazionale e riferimenti alle tradizioni costruttive piemontesi. Queste cose e questi uomini appartengono a una zona del Piemonte che noi amiamo, che abbiamo analizzato, interpretato e frequentato, con la speranza di trarre degli insegnamenti utili per il nostro presente e per il nostro futuro.
C’è un aspetto che ci ha colpito: riguarda la costante oscillazione di queste esperienze, di questi uomini, tra una dimensione locale e una internazionale, tra la ricerca delle proprie radici e la speranza di essere cittadini del mondo. Nelle pietre di Schellino, nelle terre della Langa e dell’alto Monferrato, insieme alla “piemontesità”, vi sono memorie inglesi come echi di eclettismo europeo, processi immaginifici e risposte al requisito dell’utilità. Nelle parole di Pavese, insieme all’appartenenza alla migliore tradizione letteraria torinese, vi sono richiami alla letteratura americana di inizio Novecento, sgarri metrici e demoni autobiografici. Eppure quelle pietre e queste parole sembrano radicate in quel territorio, appartengono intimamente a quell’ambiente. Lì si sono piantate. Questa peculiarità è ben espressa all’inizio de La luna e i falò, dove è scritto: “Chi può dire di che carne sono fatto? Ho girato abbastanza il mondo da sapere che tutte le carni sono buone e si equivalgono, ma è per questo che uno si stanca e cerca di mettere le radici, di farsi terra e paese, perché la sua carne valga e duri di più che un giro di stagione”.
Questo nostro progetto si è misurato – oltre che con le indicazioni del bando di concorso che richiedevano la valorizzazione ambientale e architettonica della torre piezometrica esistente – con questi frammenti di “terra” del Piemonte, con questi uomini, con queste cose, con queste idee e con il concetto di utilità che deve appartenere all’architettura pubblica. Per questo il nostro progetto deve essere letto come un tentativo di valorizzare non solo l’immagine della piazza di Moasca ma soprattutto il complesso del Castello. Abbiamo pensato di rivestire la torre esistente con una struttura semitrasparente alta come la torre circolare del Castello di Moasca, nostro riferimento essenziale. Una struttura a pianta quadrata (6,60 x 6,60) costituita da un reticolo di elementi di legno lamellare, ad alta compatibilità ambientale, e da una paramento modulare di laterizio.
Il reticolo – evoca memorie razionaliste – si frantuma e poi si ricompone raggiungendo una discreta unità formale, termina in alto con una lanterna-terrazza di vetro, da cui è possibile vedere e al contempo essere visti, che contiene un giardino pensile.
Il paramento di laterizio – denso di ricordi locali – è costituito da una serie di doghe prefabbricate che hanno l’interasse variabile, che aumenta con l’aumentare dell’altezza. Così esso si smaterializza elevandosi verso l’azzurro del cielo e così la luce interna, visibile dall’esterno e da lontano, si incrementa con l’innalzarsi della quota, raggiungendo la sua massima luminosità nella lanterna-terrazza vetrata. Non solo: la disposizione della trama del laterizio, che varia al variare dei settori del reticolo, rafforza l’immagine di un architettura spezzettata e insieme compatta: una architettura che declina alcune esperienze architettoniche di Schellino e al contempo dialoga con il concetto di “trasparenza” e di “frantumazione” delle forme, con alcuni esempi costruttivi che provengono da terre lontane. Qui l’idea di solidità si coagula a quella di leggerezza, la figura della casa-torre di Alba si intreccia a quella del faro della costa irlandese, la memoria del passato allo sguardo verso l’avvenire, l’uso delle tecniche insolite alla necessità di ridurre i costi di costruzione.
Dal punto di vista funzionale e costruttivo il nostro progetto si propone di inserire un ascensore all’interno della torre esistente; di aggiungere nuove scale di legno facilmente agibili che consentono l’accesso alla lanterna-terrazza superiore; di modificare la vasca della torre pur mantenendone la capacità volumetrica; di utilizzare pannelli prefabbricati di laterizio che si assemblano facilmente a secco; di dialogare con il Castello inserendo un passaggio-ponte di ferro e legno tra la torre e l’edificio. Così la nostra torre, oltre ad essere un elemento del paesaggio, che varia al variare delle ore, delle stagioni e della luce, diventa una passeggiata verticale. Una promenade che può concorrere, insieme alle scelte della Amministrazione, al recupero e alla valorizzazione nel tempo della Rocca antica, che può essere uscita o entrata, percorso di sicurezza e semplicemente accesso all’edificio di origine medioevale oppure percorso verticale da cui osservare quel lembo di Piemonte.


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