Fantasmagorie urbane e supposizioni critiche

Una mostra su John Hejduk

In un periodo come il nostro, che ha distrutto l’amore per una certa architettura e la passione per l’insegnamento, humus per archistar capricciosi e docenti burocratizzati, la piccola mostra su alcuni disegni di John Hejduk rappresenta un’occasione utile per riflettere su qualche problema che tocca il nostro mestiere di architetti e di docenti.

A Modena, nell’ambito del Festival dell’architettura 4 diretto da Carlo Quintelli, la mostra veicola diciotto disegni, provenienti dal Canadian Centre for Architecture, che riguardano i progetti per Venezia e Berlino. Sono disegni belli e originali. Si possono sfiorare e analizzare da vicino. Evocano ottimismo e pessimismo, silenzi e intenzioni progettuali. Rappresentano paesaggi che non sono solo fisici, né mnemonici, ma re-inventati dall’occhio e dall’anima dell’architetto-educatore di New York. Sono dunque frammenti di paesaggio secondo John Hejduk.

Qui, a me pare, la mostra evidenzia la sua forza e insieme la sua debolezza. La sua forza perché si tratta di una mostra di idee. E come ogni mostra “a tesi” vuole o vorrebbe dimostrare che, dopo un certo periodo, Hejduk si è avvicinato al concetto – e alla sua rappresentazione – di figura architettonica; una figura, secondo i curatori, assai articolata, che tocca la storia delle forme come la memoria dell’architetto, il simbolo come i suoi significati. And so on. La sua debolezza perché, trattandosi appunto di un racconto parziale, incatena un uomo così complesso (che in tempi diversi ha sempre cercato i cortocircuiti – e la loro espressione formale – tra gli opposti, tra Jean Gris e Piet Mondrian, tra Robert Slutzky e Massimo Scolari, tra Marcel Proust a Andre Gide, per esempio) nella cornice dell’architettura della città che dovrebbe essere l’unica e la sola in grado di dare senso alle forme architettoniche.

Corrispondenze

L’avvicinamento – proposto dalla mostra che espone solo gli ultimi anni della sua ricerca – ad alcuni temi che sono appartenuti all’architetto italiano che più ha catturato “the authenticity of Italy”, sebbene già evidenziato dalle pagine di Mask of Medusa e dalla mostra Aldo Rossi und John Hejduk che si è tenuta all’ETH di Zurigo (1973)[1], a me pare, non deve essere sopravvalutato; non va enfatizzato nemmeno nella città che ospita il più emblematico edificio dell’architetto e storico milanese (il Cimitero di Modena, ndt). Perché, come sostiene Guido Zuliani nello scritto End Games – Note sull’architettura di John Hejduk, pubblicato nel catalogo Documenti del Festival dell’Architettura 4, la lettura dell’opera di Hejduk deve superare “l’inevitabile impasse critico prodotto da quelle letture descrittive che la vedono invece scandita in fasi successive, discontinue e poco e niente relazionate tra loro”. Così le possibili corrispondenze tra le due inesauribili figure di scienziati e di artisti, riscontrabile dopo la partecipazione di Hejduk alla mostra Architettura Razionale di Milano (1973) e l’esperienza di Rossi alla Cooper Union di New York (1976), per essere decodificate e per diventare utili operativamente, devono riferirsi a un viaggio culturale più vasto. Un viaggio che ha origine nelle sperimentazioni fertili (didattiche e analitiche, geometriche e aritmetiche) di Austin (1954-1955) e termina nel nomadismo formale di Vladivostock (1989), sorta di critica al monumentalismo “modaiolo” del periodo; che passa dalla frammentata Wall House 2 (1971-1972), punto paradigmatico di fine e insieme di inizio, secondo Zuliani; che tocca la moltitudine di pezzi di Sheet with sixty-six sketches of objects for Victims (1984). Un viaggio, o meglio, una navigazione lunga e per fortuna incerta, fatta di derive e di scarrocci, che esprime una rotta prestabilita chiara e insieme densa di deviazioni, di incontri casuali e fortemente cercati che ne hanno piegato l’itinerario e, talvolta, hanno reso infiniti gli approdi. La domanda che allora nasce è: cosa c’è ancora di potenzialmente interessante, oggi, in questa “inattuale” ricerca sul senso del nostro mestiere che ha piegato per sempre l’operato di architetti e insegnanti? Provo a supporre alcuni possibili percorsi di lettura, partendo dal testo End Games e dalla mostra modenese che hanno avuto il merito di riportare alla luce un architetto per certi versi “dimenticato”.

Paesaggi

Nella mostra vi è uno schizzo che rappresenta una cornice scura e sullo sfondo una delle Thirteen Wacthtowers of Cannaregio (1974-1979) con una pezzo di Venezia. Come alcuni schizzi veneziani di Le Corbusier, anche qui affiora un paesaggio veneziano per John Hejduk. Un paesaggio fortemente soggettivo che non è solo ricerca paziente, né memoria, ma soprattutto visione. Un paesaggio che è così frutto dell’immaginazione (se per immaginazione intendiamo cosa avviene nella nostra mente quando crediamo di pre-figurare un’immagine). Qui Venezia è quasi la sua autobiografia. La laguna è come John Hejduk. È la mente dell’individuo, per lui, la cifra segreta che può concorrere a decriptare il significato del paesaggio urbano: non dunque il “regionalismo critico” con le sue declinazioni formali, ma, come sostiene con oscura lucidità David Shapiro, “we are remined that the dominant region is the mind. Hejduk’s works are the mature speculations of a cosmopolite in the age of the destruction of the city and one who approches the institution of architecture with a militant intransigence”[2].

Non-finito

Il testo di Zuliani, citato in precedenza, propone un aspetto ricco di sviluppi critici imprevedibili e fecondi: cioè la problematica dell’incompiutezza che caratterizza alcuni disegni di Hejduk. Per esempio Sheet with sixty-six sketches of objects for Victims esprime, come in quasi tutte le sue assonometrie isometriche, la sovrapposizione tra oggetto e soggetto, tra frammenti disegnati e osservatore. Non solo: qui è rappresentato il concetto di non-finito che a me rimanda al concetto che è stato narrato nell’Ottocento dal Sublime di Edmund Burke, dove l’incompiutezza può, forse deve, sollecitare il fruitore a completare l’oggetto. Questi “neri geroglifici”, in queste “icone” difficili da descrivere linearmente, il non-finito può diventare occasione straordinaria di invenzione progettuale, perché, come scrive Zuliani esse “cercano nella planimetria del progetto una possibile condizione materiale che le accomuni, di riconoscersi cioè l’un l’altra in una improbabile unità, toccandosi in un singolo punto, tentando così, con un gesto dalla tonalità beckettiana, di superare senza colmarla, anzi confermandola,  quell’impossibile distanza che le separa, con l’atto drammatico e silenzioso, l’unico forse a loro possibile, di un puro contatto fisico”.

Educazione

Nella mostra manca l’aspetto decisivo per comprendere l’opera di Hejduk. La sovrapposizione, quasi l’analogia, tra architettura ed educazione dell’architetto, analogia che caratterizza ogni sua attività didattica e ogni sua azione progettuale. Per decriptare il suo lavoro, o meglio i suoi codici segreti, potrebbe essere utile scandagliare simultaneamente il suo periodo come Texas Ranger, quando vi era la convinzione che “architectural thinking was a form of intellectual activity”[3], e il periodo come Dean trascorso alla Cooper Union tra il 1972 (Wall House 2) e il 1989 (Object/Subject), quando lo studio anti-accademico di Jean Gris o di Paolo Uccello si sovrapponeva all’ammirazione per alcuni edifici progettati dai grandi costruttori americani come SOM. Solo così, a me pare, si può tentare di avvicinarsi alla comprensione di una delle figure più empiriche e poetiche dell’architettura e della cultura del Novecento (dove poesia non è l’insieme di sentimento-impressione-nostalgia, è il coagulo di lucidità-immaginazione-critica).

Cesare Piva


[1] La mostra è stata allestita da Heinz Ronner: è scaturita da un lato per i continui contatti e per le analogie didattiche tra ETH e USA, dall’altro per il crescente interesse al lavoro di Aldo Rossi e della “tendenza”. Ringrazio Werner Oechslin per le informazioni che mi ha fornito.
[2] David Shapiro, The Clock of Deletion: Time and John Hejduk’s Architecture, in John Hejduk, Collapse of Time and other Diary Constructions, Architectural Association, London 1987.
[3] Werner Oechslin, “Transparency”: The Search for a Reliable Design Method in Accordance with the Principles of Modern Architecture, in Colin Rowe and Robert Slutzky, Transparency, with a Commentary by Bernhard Hoesli and a Introduction by Werner Oechslin, Birkhhauser, Basel 1997, p. 11.

“Aión. Rivista internazionale di architettura”, n. 18, 2008, pp. 146-147. / ISSN 1720-1721

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